è la prima di stagione.
di una stagione che tarda ad arrivare, eppure, si sa, arriverà. è di una sera stanca; è di quando avrei tutte le scuse per non farlo, e invece. è più coperta del solito, ché fuori l’inverno vuole essere ricordato prepotente.
inizia pesante, incappucciata, e le gambe ridono in modo quasi osceno i cent’anni che hanno in due. e invece. porta sotto ai tre strati di pile, il profumo di quellopiccolo dal cui corpo miracoloso mi sono staccata da poco e che – come sempre da quando c’è e lo posso toccare – già mi manca.
ho un coma lucido emozionale. ma non triste, non disperato, non elettrico, non dissennato. mi pesa seppur lieve la giornata, ma molto di più tutta la vita di adesso che al suo termine mi ha portata, direi. è solo un pilota automatico che non richiede pensiero compiuto e razionale. è un bene, un bene che non mi ricordavo di volermi.
i motivi perché è così non ci sono, cosa che è ancora meglica del contrario, che se hai dei problemi almeno li esamini, li prendi a mano, per non dire che – se sei un’altra e non me – magari li risolvi anche. i problemi di cui so, sono ormai il pavimento acclarato di quella che sono, così come le consapevolezze, così come le vittorie, ché le sconfitte me le sono ormai perdonate.
lo dice anche la vanoni – post sanremo – che me lo canta a ripetizione dal telefono al cuore – via auricolari – in loop. rifletto che se è questa, la maturità, nessuno me la aveva mai spiegata veramente bene, perché – lo dico piano, così non me lo sento dire – se è davvero questa, va a finire che mi piace anche.
spero sempre, come da sempre, nel sole, nel domani che è sempre più bello di oggi, nella bella stagione che stasera ha quasi ragione di essere sperata – ma di cui non v’è certezza, mai – in un paio di futuri sanluchi che mi riconcilieranno con me.
e come è per tutto, nella vita, si parte da zero verso uno: si parte da adesso.
i sanluchi sono una specie di rito pagano cui mi autodedico, o che mi autoconcedo, dipende dai momenti e da come mi sento portata verso me medesima, quindi se sono, o meno, autoindulgente. dicevo, sono delle robe che faccio, che rivesto di azione, principalmente.
sanluca si riferisce ovviamente alla basilica di, quella che sta in cima all’omonimo portico per, quello che dal meloncello porta a. i sanluchi sono, fattivamente, i giri avantindietro che io faccio, per l’appunto, a e da. a piedi, rigorosamently. da sola, ora un po’ meno rigosamently, devo ammettere, ma in solitarietà, il rito nasce.
cominciò tutto nell’epoca del cenero (anche per lui c’è un a.c. e un d.c., come per quell’altro più importante con la croce, ecco perché qui viene minuscolo: per un residuo di rispetto religioso!). nell’epoca di quasi fine cenero, credo il penultimo anno, non ricordo l’anno ma ricordo il giorno, anzi la sera, ché era il venticinque agosto, e me lo ricordo bene perché il giorno dopo era il compleanno del gieffe, ergo il ventisei, ed io ero tornata dal mare un po’ anche apposta. quella sera lì successe una cosa che risparmio il racconto, ma mi scosse molto moltissimo. anzi a ben pensarci fu la sera prima, la cosa scossante, perché la sera del venticinque feci il primo dei sanluchi, ed era il tramonto, per cui considerando la data in questione saran state, chessò, le sette di sera. più che scuotermi, mi tocca d’esser sincera, quella cosa che successe che non racconterò, mi fece proprio andar fuori di catena, tipo che mi pare di poter dire, adesso, che mi disperò soquantamente.
ma la disperazione, allora, era davvero diversa – seppur parossistica – da tutte quelle che son venute dopo: tocca ammettere che la disperazione, così come la gioia, non è più quella di un tempo. così come il futuro, per citare paul valery, che lo ha detto lui per primo, a suo tempo, solo che lui lo diceva in francese. disperazione, dicevo, quella di allora, da cui la strana reazione reattiva, il sanluca appunto: mai fatto prima, ma di certo ci devo aver pensato qualche volta.
mi vesto sommariamente da ginnica (erano gli albori, allora dell’interesse per il mio corpo in movimento); mi ficco una musica nelle orecchie, non ricordo quale, e me ne vado a diluire la mia disperazione a pedi su per il portico, partenza dal meloncello, con parcheggio di motorino al bar billy. su che andavo, per il mio primo dei sanluchi, dentro che mi sifulava, nelle orecchie, una musica toccanerviesposti – fuori che mi abbracciava e dentro nella pelle che mi entrava, un tramonto di luce che pareva qualcuno lo avesse commissionato – ho cominciato una serie di ragionamenti emotivi autopanteistici, ho sviluppato una sventagliata di emozioni siffattamente composite e definite, che quasi senza accorgermene, sono arrivata in cima zuppa di sudore ma più che altro di lacrime, e mi ci sono lasciata trascinare dentro, a quella sensazione lì, proprio mi ci sono arresa, tuffata senza le dita a chiudere il naso dei sentimenti.
quella sera lì esattamente, ma dicevo che risparmio i dettagli ed infatti lo faccio, capii cose e presi decisioni. ma soprattutto scoprii i sanluchi, che non ho più abbandonato e che mai e poi mai abbandonerò. non mi va di analizzare, di catalogare, di razionalizzare (dio che parola così poco sognante). so solo che li faccio e farli mi fa, delle volte star molto bene e delle altre volte stare malissimo, ma comunque e sempre mi fa star sincera, con me e con quel che sento.
negli anni ci sono state evolinvoluzioni, dei sanluchi: in compagnia, con l’amica cara; con le amiche per chiarire l’inchiaribile, a starnazzare parlando di maschi, a confidarsi e farsi confidare; a cercare tonicità e glutei dignitosi, ma trovando per certo e sempre e solo della complicità e della comunione. a volte qualche maschio mi ci ha seguita, tipo per esser dimostrativo, qualcuno incuriosito ha cercato e creduto di capire; con mia figlia che li ha ereditati credo per osmosi e che – anche lei – ora se ne bea facendo finta che sia ginnastica … e tutti questi sanluchi elencati ed altri ancora, son validi, per carità, ma i veri sanluchi son sempre miei con me da sola: la musica sempre più mirata a sifularmi nelle orecchie; la stagione dalla primavera in poi, il momento preferibilmente tramontistico e tramortistico.
ci posso solo sperare in quei sanluchi lì, come dicevo, perché conoscendoli a volte tendo a sottrarmici, od a sottrarmeli negandomeli. speriam speriamo, nella bella stagione che oggi pare che ce ne sia, e in un qualche sanluca di cui avrò bisogno: lo so solo dopo, che ne avevo bisogno, come è stato oggi, come sempre mi sa che sarà.
mi accorgo di aver scritto – scritto e pensato, ai sanluchi – molto nei mesi scorsi, ma anche che era da molto, che non me ne concedevo. lo so perché sento adesso che mi pesava la mente, oltre alle gambe ed al respiro. il periodo obnubila un po’ la scansione dei pensieri, ma forse di più quella delle azioni: ci sono altre cose che vengono prima di me, lately, una sfilza lunghissima che mi consuma l’energia, e l’autodisciplina del bravo soldatino – pur attualizzata, data l’epoca di vita corrente – non manca mai di automettermi in fondo alla lista dei to do.
obnubila è una parola bellissima, mi piace tanto e mi sa di odalische, chissà perché.
io non credevo, di voler diventare quella che sono. credo anche, anzi, che il mio problema sia sempre stato proprio lì. da grande sarò diversa, di fuori nel vivendo, da quella che da grande sono diventata, mi son sempre detta. da grande sarò identica a me, quella che di dentro in effetti sono, da grande che sono, mi son sempre raccontata. e invece. io di me, adoro le foto dove vengo con le facce strane: mi faccio una tenerezza infinita, beccata in momenti di davvero velocissimissima défaillance di espressione, almeno di faccia: finisce che guardandole, con un retrogusto di autovergogna affettuosa, mi voglio più bene! défaillance sì, ma solo di faccia, eh. le foto invece che mi colgono poco piacevole e caduca in maniera fisica, le odio a morte e le cancello e le strappo e le annullo.
gemellitudine? ho fatto la pace anche con quella. mi urgeva un sanluca: ora che l’ho fatto ho tutto il di dentro che ancora se la suona e se la canta, non so se davvero con le note e le parole percepite anche da altri, o solo come eco interna mentre guido verso casa, il finestrino incautamente abbassato, starnutendo al primo profumo di primavera, ché il mio naso sente sempre prima della mia anima. songiàlà, anzi c’ero, perché songiàqua, tornata e docciata. e la doccia, da sempre e per sempre, dopo i sanluchi, mi smuove sensazioni da urlare stando zitta, e dita da far correre a perdifiato sulla tastiera. di cui state leggendo, qui, il risultato.